No, non è un titolo acchiappa-views. Chi di noi non ha mai pensato che vedere un film in streaming fosse sicuramente più green, oltre che più economico, rispetto al comprare un supporto fisico?
Ebbene questa nostra convinzione è falsa e pure dannosa per l’ambiente. Ma come è possibile che anche rinunciando al supporto fisico, al suo imballaggio e alla loro produzione, l’inquinamento sia comunque maggiore?
La risposta è nei consumi energetici del data service delle varie piattaforme streaming. Consumi accentuati anche a causa del lockdown che ha riguardato la prima metà del 2020. Ma cosa sono esattamente i data center? Sono delle strutture a cui i servizi come Netflix, Disney+ e Prime Video si rivolgono, lì vengono immagazzinati tutti i contenuti e dove le richieste degli utenti come il “salta intro” o il rewind di 10 o 30 secondi vengono elaborate.
Ogni volta che un utente compie un’azione come anche il cambiare la lingua o aggiungere i sottotitoli, il data center modifica il contenuto e questa elaborazione consuma, e anche tanto. Si stima infatti che entro il 2030 il 13% dell’energia prodotta globalmente sarà assorbita proprio dai data center e che questi saranno responsabili del 6% delle emissioni di CO2.
Da uno studio riportato da The Conversation sei ore di streaming corrispondono ad un litro di benzina. Questo fa capire quanto lo streaming possa incidere sull’ambiente: si pensi che un paio di anni fa su Nature era stato pubblicato uno studio in cui si dimostrava come la carbon footprint dell’energia impiegata per far funzionare i server e per ricaricare gli smartphone equivalesse alle emissioni inquinanti degli aerei.
La soluzione definitiva per ora non esiste ancora. No, spegnere Netflix non è una soluzione efficace. Lo sviluppo tecnologico dovrà affidarsi a campi come materiali isolanti e basso consumo energetico. Un’altra possibile strada è quella di ricorrere all’elaborazione di soluzioni capaci di migliorare l‘efficienza energetica a parità di flusso di dati trasmessi.